di Roberto Orsi
In
seguito ai tumultuosi eventi che hanno coinvolto Atene e Bruxelles,
l’opinione pubblica europea (e non solo) si è rapidamente
polarizzata come forse non accadeva da decenni.
Il
tragico deterioramento delle finanze greche pubbliche e private
nonché le sue inevitabili ricadute sociali e politiche hanno
inasprito i toni su tutti i fronti. Numerosi commentatori, alcuni dei
quali tanto autorevoli quanto distanti fra loro come Jürgen Habermas
e
Slavoj Žižek,
hanno sottolineato che questa potrebbe essere la fine
del progetto europeo, un preludio a nuove rivalità interstatali e,
quindi, a possibili guerre.
La
gestione della crisi greca avrebbe fatto trapelare – tanto
nell’Unione Europea come organizzazione quanto nella mentalità e
nei comportamenti dei leader politici – una certa mancanza di
interesse per “valori chiave” quali la democrazia e la
solidarietà. Questa polarizzazione deve molto ai grandi limiti della
comunicazione politica del Vecchio Continente, dominata (per ragioni
che esulano dagli obiettivi di questo articolo) da slogan costruiti
su iper-semplificazioni e da un appeal
emotivo volto a provocare reazioni impulsive.
Il
governo greco è stato particolarmente attivo su questo fronte
facendo ricorso all’escamotage
di un referendum rapidamente imbastito allo scopo di qualificare le
proprie azioni e la propria posizione come “democratiche”. In
termini analitici, non è in questo caso rilevante esaminare che cosa
si intenda esattamente con il termine “democrazia”. Il vero punto
è un altro: di fronte a una contrapposizione così netta e
schematica (Germania vs. Grecia), nel momento stesso in cui una delle
due parti riesce a farsi identificare con la democrazia – termine
che quasi tutti gli Europei sono stati educati a considerare sinonimo
di “bene assoluto” – l’altra finisce inevitabilmente per
vestire i panni del tiranno, di ciò che è “male assoluto”.
Qualsiasi
tentativo di mostrare che la questione è ben più complessa e ricca
di sfumature è destinato a fallire data la debolezza di più
elaborate forme di comunicazione, le quali interessano una parte
certamente influente, ma comunque minoritaria, della popolazione e
dell’elettorato. Le stesse considerazioni valgono per il termine
“solidarietà”, la cui ipotetica controparte – la tanto temuta
austerità – non può che essere l’espressione di mero sadismo,
avidità e altre depravazioni morali incarnate da individui
sostanzialmente degenerati.
Analisi
sulla situazione economico-politica
greca più equilibrate e attente alle sfumature per fortuna non
mancano....................
.
e sono spesso arricchite da intuizioni di notevole profondità storica. Ma questi contributi non riescono comunque a scalfire la dura pelle del behemoth manicheo purtroppo dominante.
Di
fatto, non v’è nulla di particolarmente nuovo nella tendenza
all’iper-semplificazione, alla trasformazione della politica in
slogan e all’impiego di strategie manichee di comunicazione. Lo
stesso Habermas ha dedicato alla “trasformazione strutturale della
sfera pubblica” uno dei suoi primi lavori (Storia
e critica dell’opinione pubblica,
1962), sviluppando idee già articolate in
nuce
da Max Weber.
È
tuttavia il caso di sottolineare il modo in cui un risentimento del
tutto legittimo nei confronti della politica europea, dei leader
politici, delle loro decisioni e della loro stessa cultura politica
sia stato incanalato (o abbia incanalato se stesso) in una vera e
propria isteria anti-tedesca, con vaste implicazioni per il futuro
politico del progetto europeo – un revival
di animosità tra etnie che si supponeva appartenere ormai al
passato.
Qualsiasi
attento lettore della stampa avrà ormai notato la proliferazione di
argomentazioni contro la Germania. Tra queste, il fatto che l’euro
sarebbe un progetto tedesco che ha finito per avvantaggiare solo il
paese che lo ha ideato, e la sua economia. Mentre i Tedeschi e i loro
più stretti alleati si stanno arricchendo, il resto della
popolazione dell’Eurozona diventa sempre più povero. In secondo
luogo, l’euro è in sostanza un progetto che ha come fine ultimo il
dominio della Germania sul continente – un sogno al quale i
Tedeschi non avrebbero mai davvero rinunciato sin dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale e che ora sta finalmente prendendo forma: il
Quarto Reich.
Ancora: la Germania starebbe distruggendo l’Europa per la terza
volta nell’arco di un secolo. I Tedeschi non avrebbero ancora
pagato per gli errori del passato, non c’è ancora stata una vera
riparazione, e mentre i loro debiti di guerra furono cancellati nel
1953 quelli della Grecia non riceveranno lo stesso trattamento di
favore. Il loro comportamento, e soprattutto quello del ministro
delle finanze Wolfgang Schäuble, è irresponsabile oggi come sempre
lo è stato in passato.
La
verità contenuta in queste tesi è assai limitata. L’euro è
un’iniziativa multilaterale discussa per molti anni e approvata con
il libero consenso dei (democraticamente eletti) governi coinvolti.
Secondo alcune ricostruzioni storiche, l’idea di dare vita a una
moneta comune europea fu patrocinata dalla Francia
allo scopo di contenere e “addomesticare” una Germania
riunificata all’interno dell’Unione Europea.
Le
regole incorporate nel Trattato di Maastricht furono discusse e
accettate come lo standard di ciò che lo storico E.H. Carr avrebbe
potuto definire “moralità economica”, con il rigetto di pratiche
precedentemente adottate quali la svalutazione della moneta e
l’adozione di massicce dosi di dottrine economiche neo-liberal. La
saggezza alla base di una costruzione del genere è certamente
discutibile, ma non supporta la tesi che l’euro sia un progetto
imposto dalla Germania alle altre nazioni europee.
È
difficile negare che l’industria tedesca abbia prosperato (con
alcune limitazioni) rispetto alle economie di altri paesi membri
dell’Unione a partire dall’introduzione della moneta unica. In
ampia misura, però, è una questione di contesto e prospettiva.
La
storia dello sviluppo industriale tedesco è segnata
dall’esportazione di prodotti di alta qualità. Il settore
manifatturiero, in particolare, si è specializzato in macchinari
industriali, beni di lusso e altri prodotti tecnologicamente avanzati
che ancora oggi non sono immediatamente sostituibili. Per tutte le
tipologie di macchinari industriali – dalla tipografia di alta
qualità alla produzione del pane – i prodotti alternativi a quelli
tedeschi sono pochi o inesistenti. È questo l’aspetto chiave del
successo industriale della Germania. In un contesto nel quale la
crescita delle economie emergenti ha ampiamente superato quella dei
paesi avanzati diventando la parte preponderante dell’economia
globale, non sorprende che i mercati destinatari dell’export
tedesco – paesi che cercano di costruire la propria capacità
produttiva e migliorare gli standard qualitativi a fronte di una
crescente richiesta di beni di lusso da parte dei ceti più abbienti
– siano costantemente aumentati.
Contrariamente
all’idea, molto diffusa, che il grande surplus tedesco sottragga
risorse finanziarie all’Euro periferia, le attività commerciali
dell’Eurozona risultano essere alquanto bilanciate,
mentre la maggior parte del surplus è generata dal commercio esterno
a tale area. In larga misura, la popolazione tedesca non sta inoltre
traendo particolari vantaggi da questa situazione: nuove forme di
povertà
si stanno infatti rapidamente diffondendo nel paese.
Per
quanto riguarda le recriminazioni storiche e gli altri incauti
confronti, è il caso di ricordare che nel 1953 la Germania era un
paese occupato e diviso. È il caso di ricordare che, per quanto
incalcolabili siano stati i danni prodotti dalle politiche del Terzo
Reich,
il paese perse circa un terzo del territorio posseduto prima della
guerra, incluse moltissime città e villaggi – da Memel a
Königsberg, da Danzig a Stettin e Breslau – i cui abitanti furono
deportati perdendo tutto ciò che possedevano.
Altri
aspetti cruciali sono di natura politica ed economica. Nel secondo
dopoguerra, la ricostruzione economica dell’Europa occidentale rese
necessario far ripartire rapidamente le industrie tedesche a
beneficio di tutti gli altri paesi. Nel contesto della guerra fredda
e della lotta al crescente movimento comunista, si trattò di una
decisione che divenne presto un pilastro dell’ordine
politico-economico dell’Europa atlantica.
Un
secondo aspetto da considerare è che il confronto storico con la
Grecia è improprio non solo perché non coglie le implicazioni
strategiche e politiche sottese alla cancellazione del debito nel
’53, ma anche perché trascura un fattore molto più elementare: se
anche si optasse per una remissione del debito (che dovrà
necessariamente essere cancellato, in un modo o nell’altro),
l’economia greca necessiterebbe immediatamente di debito
addizionale
per poter sopravvivere. È questa la ragione alla base dell’idea
che la Grecia abbia bisogno di riforme tanto urgenti quanto
draconiane.
Storicamente,
la costruzione di un ordine politico europeo nel dopoguerra fu
accompagnata, come sempre succede in questi casi, dal rafforzamento
di alcune narrative legittimanti fondate su una certa lettura del
passato. Le narrazioni storiche competono agli storici, e sono il
frutto della progressiva stratificazione di revisioni, critiche,
scoperte e interpretazioni delle fonti. Da una prospettiva politica,
però, non tutta la storia pesa allo stesso modo. La seconda guerra
macedonica (200-197 a.C.), evento di enorme impatto sulla storia
mondiale, agli occhi di un europeo contemporaneo non è lontanamente
rilevante quanto la Rivoluzione Francese del 1789. Questa, a sua
volta, impallidisce di fronte agli eventi della prima metà del
ventesimo secolo, fra tutti la seconda guerra mondiale. Non è solo
un problema di prossimità temporale: vanno anche considerati i
simboli che reggono l’ordine politico esistente. Da una prospettiva
marxista-leninista ortodossa, come celebrata sino alla fine della
guerra fredda, la Rivoluzione Russa del 1917 rappresentava l’evento
decisivo nella storia dell’umanità. Dal punto di vista della
politica interna statunitense, la semantica della rivoluzione del
1775-83 è probabilmente più importante di quella di qualsiasi altro
conflitto, con la parziale eccezione della guerra civile (1861-65).
Per
l’ordine internazionale successivo al 1945, il simbolismo legato
alla seconda guerra mondiale si trova indiscutibilmente al cuore
semantico dell’intera costruzione. È superfluo ricordare al
lettore l’impegno profuso dai media per commemorare gli eventi di
quella guerra, soprattutto in occasione del settantesimo anniversario
dalla sua fine. Il progetto europeo è stato fondato sull’idea di
lasciarsi il passato alle spalle per ricostruire senza dimenticare
ciò che è accaduto, ma rinunciando a strumentalizzare la memoria
storica soltanto per soddisfare esigenze politiche contingenti.
In
questo processo, tuttavia, c’è sempre stata una contraddizione.
Una tensione di fondo mai del tutto risolta si è conservata nei
termini di un compromesso che ritiene inaccettabile l’egemonia
tedesca in qualsiasi forma e presuppone una leadership collegiale con
gli altri paesi di maggior peso e, in particolare, con la Francia.
Le
dinamiche storiche contingenti stanno tuttavia riportando in
superficie questa tensione sotterranea, minando alle basi un tale
compromesso. I Tedeschi – anche se potrebbero non avere l’ambizione
di guidare l’Europa, anche se fossero disposti a fare tutto il
possibile per evitare i pericoli legati alle recriminazioni storiche
e anche se non è affatto chiaro se e in quale misura Berlino
possegga una qualsiasi visione politica – sono stati costretti
dalla forza delle circostanze ad assumere la leadership dopo che
altri paesi, Francia e Italia in particolare, sono ormai divenuti
impotenti sul piano economico-politico. Come effetto, il tabù di una
strumentalizzazione su larga scala delle memorie di guerra è stato
infranto.
L’emergere
di un’egemonia tedesca (nel significato greco di “mostrare la
strada”) ha così permesso la facile costruzione di una
contro-narrativa tanto semplicistica quanto efficace che non solo
mobilita, come ricordato, i “valori” della democrazia e della
solidarietà, ma si appropria indebitamente anche dei simboli della
resistenza antifascista sui quali è fondata la costruzione europea
diventando così indiscutibile, impermeabile a qualsiasi critica,
inarrestabile.
L’Unione
Europea si è pertanto venuta a trovare in una posizione assai
scomoda: da un lato è identificata con il (malvagio) progetto
dell’euro e, indirettamente, con la leadership tedesca, la sua
arroganza e le sue ambizioni neo-imperialistiche. Dall’altro, deve
sostenere i propri valori chiave e i propri simboli con il rischio di
essere essa stessa etichettata come “organizzazione fascista” –
qualcosa a fianco del quale è impossibile schierarsi, come stanno
scoprendo
numerosi partiti politici.
Assurda
come potrebbe apparire a menti più analitiche, questa situazione
avvantaggia la polarizzazione dell’opinione pubblica, obiettivo
ultimo delle politiche elettorali. Ma tutto ciò avrà un prezzo.
L’euro e il progetto dell’UE poggiano su un accordo sempre più
fragile fra la Germania e gli altri paesi circa il modo in cui
gestire gli stati periferici ormai in bancarotta. A oggi, non è
chiaro per quanto tempo ancora questo accordo potrà reggere. Se i
costi politici ed economici diverranno troppo alti per Berlino, in
presenza di alternative geopolitiche che la crisi sta rendendo
paradossalmente più evidenti (come la costituzione di un’Unione
limitata al centro Europa e ai paesi baltici) la tentazione di
considerare gli attuali accordi come non più validi (e convenienti)
potrebbe diventare irresistibile.
In
conclusione, non esistono vie d’uscita semplici da questa
situazione. Idealmente, il progetto europeo dovrebbe modificare la
narrazione storica sulla quale è stato fondato prendendo le distanze
tanto dalla fissazione su una lettura alquanto ristretta della
seconda guerra mondiale, quanto dall’atteggiamento altrimenti
a-storico che lo contraddistingue (si pensi all’assenza di
qualsiasi riferimento storico riconoscibile nella bandiera europea
come nelle banconote dell’euro) – il tutto superando la miopia
che induce i vari paesi a trascurare la dimensione collettiva in
favore di un approccio individualistico.
Con
tutta probabilità, un cambiamento di tale portata potrà avere luogo
solo in conseguenza di eventi futuri così decisivi da sostituirsi
alla seconda guerra mondiale nella memoria collettiva degli Europei.
Traduzione
dall’inglese
di Andrea Muzzarelli
Roberto
Orsi, Ph.D in Relazioni Internazionali presso la London School of
Economics, è membro della Security Studies Unit presso il Policy
Alternative Research Institute e Lecturer alla Graduate School of
Public Policy dell’Università di Tokyo.
twitter: @dr_roberto_orsi
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